|
|||||||||||
{ news }
Mobbing da parte dei colleghi: quando è responsabile il datore di lavoro
|
|||||||||||
In materia di mobbing, sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla lavoratrice, tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall'art. 2087 c.c. (Cassazione, sentenza 4 dicembre 2020, n. 27913). Nella specie, il Tribunale di primo grado ha dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato a una lavoratrice, disponendo la reintegrazione della lavoratrice nel luogo di lavoro, ed ha condannato la società datrice al pagamento, in favore della prima, dell'indennità risarcitoria dal licenziamento sino alla effettiva reintegra, oltre al versamento dei contributi maturati e maturandi. La Corte territoriale ha respinto l'appello avverso detta pronuncia, condannando la medesima società al pagamento di Euro 5.422,50, a titolo di risarcimento del danno da invalidità temporanea conseguente al mobbing posto in essere nei suoi confronti, confermando, nel resto, la sentenza impugnata. In particolare, la Corte ha osservato che, nella fattispecie, assume rilievo il fatto che il rappresentante legale della società datrice, era stato messo al corrente dei reiterati episodi mobizzanti posti in essere nei confronti della dipendente, ma non aveva voluto indagare a fondo la questione, né attuare provvedimenti disciplinari idonei a tutelare la situazione problematica. Gli atteggiamenti e i comportamenti tenuti dai dipendenti nei confronti della lavoratrice in questione appaiono idonei ad integrare la fattispecie di mobbing, nei termini sintetizzati dall'ormai costante giurisprudenza di legittimità, sussistendo, nel caso di specie, tanto il requisito oggettivo, quanto quello soggettivo. Il primo, costituito dalla pluralità di atti o fatti, caratterizzati da sistematicità, si è concretizzato con tutta evidenza, data la quotidianità delle offese e dei rimproveri ingiustificati con cui i dipendenti. L'elemento soggettivo risulta provato, invece, dall'offensività dei termini utilizzati e delle accuse assolutamente infondate dirette alla lavoratrice, suscettibili di evidenziare la volontà di prevaricazione dei suddetti dipendenti nei confronti della stessa. Ebbene, la Corte di merito ha esaminato e valutato il fatto che il datore di lavoro fosse o meno al corrente «dei comportamenti assunti come mobbizzanti» ed al riguardo ha osservato che, nel caso in esame, sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla lavoratrice, tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall'art. 2087 c.c.. Il datore, in particolare, non ha mai reagito a tutela dell'integrità morale di quest'ultima. Con ciò, implicitamente sottolineando la posizione di "garante" che spetta inderogabilmente al datore di lavoro. Al riguardo, è altresì da osservare che la dottrina e la giurisprudenza più attente hanno sottolineato come le disposizione della Carta costituzionale abbiano segnato anche nella materia giuslavoristica un momento di rottura rispetto al sistema precedente "ed abbiano consacrato, di conseguenza, il definitivo ripudio dell'ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l'agire privato", in considerazione del fatto che l'attività produttiva - anch'essa oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene all'iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41, primo comma, Cost.) - è subordinata, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità. Da ciò consegue che la concezione "patrimonialistica" dell'individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute - anche nel luogo nel quale si svolge la propria attività lavorativa -; momenti tutti che "costituiscono il centro di gravità del sistema", ponendosi come valori apicali dell'ordinamento, anche in considerazione del fatto che la mancata predisposizione di tutti i dispositivi atti a tutelare la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro viola l'art. 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute come primario ed originario dell'individuo, ed altresì l'art. 2087 c.c. che, imponendo la tutela dell'integrità psico-fisica del lavoratore da parte del datore di lavoro prevede un obbligo, da parte di quest'ultimo, che non si esaurisce "nell'adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico", ma attiene anche - e soprattutto - alla predisposizione "di misure atte a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell'ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio". La suddetta interpretazione estensiva della citata norma del codice civile -continuano i Giudici - si giustifica alla stregua dell'ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute - art. 32 Cost. sia per il principio di correttezza e buona fede nell'attuazione del rapporto obbligatorio - artt. 1175 e 1375 c.c., disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi "normativi" e di clausole generali - cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, sia, infine, "pur se nell'ambito della generica responsabilità extracontrattuale", ex art. 2043 c.c., in tema di neminem laedere. Al riguardo, la Suprema Corte ha messo, altresì, in evidenza, da tempo, che, in conseguenza del fatto che la violazione del dovere del neminem laedere può consistere anche in un comportamento omissivo e che l'obbligo giuridico di impedire l'evento può discendere, oltre che da una norma di legge o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività, a tutela di un diritto altrui, è da considerare responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui è esposto l'altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l'evento dannoso. |
|||||||||||
|